“Gulp!”

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Era la terza volta che Ignazio Orrù faceva il giro dell’isolato. E non per trovare parcheggio. Era a piedi. Benché l’abitazione dell’Insigne Professore distasse solo tre fermate di metropolitana dal suo mini appartamento, Ignazio era uscito di casa con due ore d’anticipo sull’orario in cui era atteso per cena.  Guardò l’orologio per l’ennesima volta. Mancavano ancora quaranta minuti. Entrò in un bar, ordinò un’acqua tonica senza fettina di limone e chiese dove fosse la toilette. Aveva bisogno di uno specchio. Nonostante usasse d’abitudine shampoo antiforfora ed evitasse di passarsi le mani tra i capelli, quando indossava una giacca scura era sempre molto preoccupato. Già che c’era, decise di fare la pipì e dare una controllata alla  sudorazione ascellare. Come temeva: neanche l’antitraspirante consigliato, per l’occasione, dal commesso della farmacia  di fronte all’ingresso delle Facoltà di Lettere, era riuscito ad impedire che gli si bagnasse la camicia.

 

Era da quando il Professore l’aveva invitato a cena che non stava più nella pelle. Un mese prima, il collega Salieri, per motivi di famiglia, aveva deciso di abbandonare la carriera universitaria per dedicarsi a tempo pieno all’attività imprenditoriale: erano in cinque  in lizza per prenderne il posto. Come da tradizione consolidata, l’invito sanciva l’investitura ufficiale a primo assistente dell’Esimio Professore: avrebbe avuto il privilegio di sedere alla sua destra durante le sedute d’esame. Attendeva questo momento da non meno di quindici anni. Si sistemò la giacca, il nodo alla cravatta, ricontrollò l’ora, Ancora ventiquattro minuti, e uscì dal bagno. Raggiunse il  bancone e il barman gli indicò il bicchiere con la sua consumazione. Ignazio guardò il bicchiere. Guardò il barman per chiedere conferma che fosse proprio quello. Il ragazzo, alle prese con un cocktail, confermò con un cenno di testa, ricevendo in cambio un’espressione di disappunto.

 

Fosse stato un altro momento, Ignazio gliene avrebbe cantate quattro. Evitò, non volendo rischiare di impelagarsi in una discussione col rischio di arrivare in ritardo a casa del Professore. Si limitò a scandire un “Se la beva lei” che lasciò perplesso il barista e si diresse alla cassa ripromettendosi che non sarebbe mai più entrato in quel bar, Un locale così elegante, con un bagno così pulito… ma come, mi si inzucchera il bordo del bicchiere senza chiedere. E chissà da quanto era là. E se un insetto… che schifo! Cose da pazzi! Con il resto ancora in mano, uscì dal locale e con passo deciso raggiunse il numero civico 22 di via Luigi Settembrini. Gli aprì la porta la moglie del Professore, una donna anziana di bell’aspetto che, con una appena percepibile inflessione meridionale nel parlare, lo ringraziò dei fiori che le aveva inviato e lo fece accomodare in salotto.

 

L’Esimio lo raggiunse dopo qualche secondo, giusto il tempo che era servito ad Ignazio per controllare se il dubbio, che improvviso gli era balenato mentre la signora gli stringeva la mano, avesse reale fondamento: aveva richiuso la patta dei pantaloni? “Caro Orrù,”  pacca sulla spalla, “la decisione di Salieri mi…”. Il monologo andò avanti per un buon quarto d’ora sui motivi che avevano portato il Professore a  scegliere Ignazio per il posto rimasto vacante, e l’eloquio si sarebbe protratto chissà per quanto se la padrona di casa non fosse entrata per annunciare che potevano accomodarsi a tavola. “Mia moglie è un’ottima cuoca, sa. Sentirà, sentirà che ragù ha preparato. Lo fa andare a fuoco lento per delle ore e…”. Il monologo sul ragù fu piuttosto breve, il tempo di lasciare il salotto, percorrere qualche metro di corridoio, entrare in sala da pranzo e sedersi: sulla tovaglia bianca a ricami floreali pastello, tra piatti di porcellana, posate d’argento e bicchieri di cristallo la padrona di casa stava sistemando due vassoi di fritto all’italiana.

 

“Caro Orrù, si serva pure. Il fritto va mangiato caldo”. Lo stato d’animo di Ignazio, all’acme della soddisfazione per un paio di belle parole che il Professore aveva espresso su di lui, s’era tinto di una nuova eccitazione al sentir parlare del ragù. Ne andava matto ed erano anni (da quando sua nonna Teresa era morta) che non lo mangiava cucinato come tradizione comanda. La dissertazione del Professore, unita al profumo proveniente dalla cucina, non lasciava dubbi che il suo palato non sarebbe rimasto deluso. Che serata! La nomina e il ragù. Durò tutto il racconto del capitolo primo del saggio a cui stava lavorando il Professore, l’intervallo tra la fine dell’antipasto e il ritorno della signora dalla cucina con un piatto da portata colmo di rigatoni fumanti. Con un mestolo in ceramica servì prima il marito, poi l’assistente, riempì la propria fondina e si mise a sedere mentre il Professore porgeva la formaggiera all’ospite.

Ignazio cosparse la pastasciutta di parmigiano, prese la forchetta e infilzò un rigatone. Sorridendo, già pregustava… ma… cazzo!… c’era… c’era qualcosa… qualcosa nel rigatone che…  Gli si azzerò  la salivazione. Come colto da improvvisa paralisi, rimase con la forchetta a mezz’aria, riuscendo a stento a controllare un moto di disgusto che non sfuggì alla signora: “Forse il ragù non le piace ?” Facendo appello a tutte le sue forze, Ignazio deglutì, e distraendo lo sguardo dal maccherone si affretto a rispondere: “Moltissimo, è… tra i miei piatti… preferiti”. “E allora mangi, cosa aspetta” ordinò perentorio il Professore. Ignazio tornò a guardare il maccherone sulla forchetta, sperando che l’ospite fosse riuscito, riacquistate le forze, a trovare una via di fuga. Macché, era ancora lì, tramortito e nero, e l’Orrù non poteva più indugiare. Si raccomandò al Santo patrono degli assistenti universitari, reclinò la testa quel tanto che gli consentisse di chiudere gli occhi senza che i commensali se ne avvedessero e infilò il rigatone in bocca. Strinse i denti e mandò giù. Tutto. Senza masticare. Il maccherone e… la mosca. Col ragù.

 

Già pubblicato su “ ‘a Città”  Periodico roccellese di notizie, politica e cultura varia – Bimestrale Anno II – n.1 – gennaio/febbraio

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