Le ragioni della mia obiezione di coscienza

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Riceviamo e pubblichiamo

Flavio Maracchia, insegnante di scuola primaria

presso l’Istituto Comprensivo Largo Oriani 1 00152 Roma

Premessa

Non sarei un obiettore di coscienza degno di questo nome se non sapessi affrontare le conseguenze del mio rifiuto e non fossi pronto a sopportare un procedimento disciplinare che suona sordo, inefficace e bislacco se messo a confronto con l’amore che nutro per i bambini, presenti e futuri, e con il senso di dovere che provo nei loro confronti, molto più grandi di ogni altra cosa.

Non sarei un obiettore di coscienza degno di questo nome se provassi a nascondermi e non tentassi di spalancare le finestre della mia aula per far entrare il sole.

Non farei il maestro se avessi paura del buio e non mi sentissi schiacciato dalla responsabilità e dal compito di dover rifiutare ogni connivenza, nella certezza che, se la parola insegna, è l’esempio che educa e che non tanto di maestri c’è bisogno in questo mondo, ma di testimoni. Testimoni che sappiano anteporre la forza e la straordinaria bellezza di un principio al mero interesse personale e al proprio vile tornaconto.

Non sarei quello che sono se smettessi di rabbrividire davanti all’aridità asfittica di un richiamo come quello ricevuto, che al coraggio e all’appassionato appello di un maestro, risponde con la tranquilla disumanità impersonale di un ciclostile. Aridità che ben precorre il sistema a cui l’Invalsi stesso ci condurrà inevitabilmente se non fermato in tempo.

Remigio Cuminetti, Pietro Pinna, Rodrigo Castello, Giuseppe Gozzini, sono i nomi di alcuni tra i primi obiettori che rifiutarono per motivi di coscienza l’uniforme militare. Pagarono per questo, scontando fino a dieci mesi di reclusione. La storia però dette loro ragione. Molti anni dopo, infatti, fu grazie alle loro lotte se io ho potuto scegliere come impiegare un anno della mia vita, optando per il servizio civile e dedicando il mio tempo agli ultimi e ai reietti invece che marciare per ore nel cortile di qualche caserma.

L’obiezione di coscienza è dunque una scelta difficile, controcorrente, in linea con una coerenza intima che diviene prodromo di una resistenza pubblica e al tempo stesso atto di fiducia nel giudizio della storia.

Dopo il 1938 alcuni maestri obiettarono alle leggi razziali. Mi chiedo cosa avrebbe fatto allora la Dirigente scolastica della mia scuola se un maestro avesse scelto l’amore per i bambini e la loro difesa invece che l’obbedienza verso le indicazioni uscite dalle fosche stanze del palazzo della Pubblica Istruzione. Probabilmente avrebbe reagito nello stesso modo, appellandosi a decreti, delibere e regolamenti, e avviando un procedimento disciplinare verso quel maestro. Avrebbe abbandonato, come tante volte avvenne, il maestro al suo gesto di coraggio isolato, condannandolo alla persecuzione a al confino. La storia però avrebbe dato ragione a lui.

Molto prima di me, e con castighi ben più grandi di quelli che rischio io per combattere il becero sistema di valutazione conseguente all’Invalsi, l’obiezione di coscienza ha segnato il destino di uomini al cui coraggio non posso neanche avvicinarmi. Il nostro passato è ricco di uomini che, molto più in generale, hanno saputo anteporre la grandezza di un ideale alla piccolezza del proprio vantaggio. La storia che oggi insegniamo nelle scuole è per fortuna ancora piena di testimonianze di questo genere. Le portiamo come esempio ai nostri ragazzi. Che maestro e che uomo sarei allora se insegnassi la bellezza di queste vite e poi non prestassi ascolto alla mia coscienza, facendo finta di nulla, per viltà o per semplice calcolo di un tornaconto?

La follia dell’Invalsi

Il sistema di valutazione Invalsi fa acqua da tutte le parti. Non funziona. Non serve a nulla. Nel migliore dei casi è frutto di un nonsense pedagogico, un equivoco, o semplicemente il risultato ultimo di un’ingenuità didattica. Nel peggiore dei casi è invece il maldestro tentativo di un appiattimento formativo, il documento certificato di un decadimento culturale, una blasfemía.

La critica al sistema, che nel mio caso interessa evidentemente la scuola primaria, può essere scissa su due livelli. Il primo livello prende in considerazione solo alcuni aspetti formali, che comunque rendono bene l’idea sull’assoluta mancanza di serietà dell’operazione di valutazione e sull’alto tasso di cialtronaggine che la contraddistingue.

Il secondo livello invece entra nel merito. Disapprova il sistema nella sua sostanza e vorrebbe scardinarlo nelle sue fondamenta.

Ammettiamo per un istante (ma solo per un istante) che il sistema Invalsi serva a qualcosa e sia necessario. Eminenti figure del panorama scientifico e scolastico italiano, non necessariamente contrarie a questo sistema di valutazione, hanno sollevato più volte l’obiezione che i test proposti fossero assolutamente incoerenti, confusi, difficilmente comprensibili, forvianti e perfino sbagliati nella loro pretesa di scientificità. La sensazione che spesso si è avuta nel leggere il contenuto delle prove è che chi le ha redatte poco sappia, o nulla, di didattica, pedagogia e bambini. Uguale esito disastroso si sarebbe potuto ottenere se un maestro fosse stato chiamato a elaborare test per valutare la resistenza alla fatica di un cavallo da corsa. Cosa ne sa un maestro di cavalli da corsa? Appunto.

Se un sistema di valutazione con domande a risposta multipla può promuovere uno scimpanzé fortunato e provvisto di matita, forse non è un sistema affidabile. Di sicuro non lo è se a somministrare le prove che devono giudicare il valore di una classe e di una scuola sono i maestri di quella stessa classe e di quella stessa scuola. Se dal risultato la scuola trarrà benefici, economici e di immagine, si può credere nell’obiettività, imparzialità e neutralità della sua classe docente impegnata a somministrare e spesso anche a correggere le prove? La risposta è naturalmente no. Il meccanismo risponde al principio di causa ed effetto nel suo esempio più elementare. Una scuola sbandiera ai quattro venti di essere sopra le medie nazionali nell’apprendimento della matematica. I genitori fanno a gara per iscrivere i figli in quella scuola. Il pericolo di diminuzione di classi, di insegnanti obbligati al trasferimento, e di accorpamenti ad altri istituti è scongiurato.

Ma le scuole possono davvero essere confrontate sulla base di sintetici parametri oggettivi? Esiste un minimo comune multiplo capace di confrontare, comparare e commisurare una scuola elementare del centro di Milano con una a Portopalo di Capo Passero? I test Invalsi vengono spediti uguali in tutte le scuole come se ciò fosse possibile. Ma è una fantasticheria bella e buona! Una smania calcolatrice che mette in moto una macchina costosissima per un risultato inutile e schizofrenico. Un maestro elementare che tutti i giorni entra nella sua classe a Scampia o a Secondigliano fa un lavoro completamente diverso dal mio, che insegno a Roma nel quartiere di Monteverde. Pensare di poter misurare con un idento metro è una sciocchezza colossale. Uguale sarebbe cercare di confrontare l’efficacia dei reparti offensivi di una squadra di calcio e una squadra di hockey con l’unico dato delle segnature realizzate alla fine di un campionato.

I grandi geni dell’Invalsi ci dicono, numeri alla mano, che le scuole nel sud raggiungono risultati mediamente inferiori rispetto a quelle del nord. Che verità finalmente svelata!

Ma la scuola di Scampia o Secondigliano, ultima o terzultima che sia nella classifica di tutte le scuole di pari grado italiane, è davvero una scuola con scarsi risultati se ha barattato un po’ di matematica o di analisi grammaticale con un redditizio lavoro di educazione alla legalità?

La fissazione di misurare e comparare le scuole non basta. L’aberrazione dell’Invalsi continua cercando di mettere sullo stesso livello anche i bambini di una stessa classe, come fossero mele sul piatto di una bilancia. Ma se la didattica nella scuola primaria cerca, nonostante i continui tagli e le nuove leggi (che tolgono lo status di bambino con difficoltà a moltissimi bambini che dovrebbero averlo) di ritagliare intorno al bambino un percorso individuale, con piani formativi personalizzati, assolutamente originali ed esclusivi, perché poi dovrebbe valutare le sue competenze con l’identico test somministrato agli altri? Quale logica sottintende un’assurdità come questa? Sei un bambino autistico, ma siccome per me sei uguale agli altri allora avrai le stesse prove? È forse questa l’ultima frontiera in campo di attenzione alla diversità? Se così fosse, ammetto di essere rimasto molto indietro. Ma molto.

È successo in verità che molti altri abbiano avvertito una leggera incongruenza nel sottoporre un bambino con uno specifico PEI alla prova Invalsi. Resto senza parole su come tante volte sia andata a finire. Perché quando non si è raggiunto il pilatesco traguardo di non averlo a scuola (invitando i genitori a tenerlo a casa nei giorni delle prove), invece di gettare i test Invalsi dalla finestra, si è scelto spesso di far uscire dalla classe il bambino. Allora mi chiedo nuovamente quale logica sottintenda questo espediente. Sei un bambino autistico, non ti voglio sottoporre alla frustrazione, allora ti mando fuori? È forse questa l’ultima frontiera in campo di attenzione alla diversità? Se così fosse ammetto di essere rimasto molto indietro. Ma molto.

L’errore più grande che si può fare quando ci si trova davanti un bambino è considerarlo un piccolo adulto, o (non è la stessa cosa, ma quasi) un futuro adulto. Un bambino è invece l’abitante di un pianeta quasi sconosciuto, il superstite di un mondo fantastico, uno straniero che dobbiamo imparare a conoscere e con cui dobbiamo stabilire un contatto. Immaginare che il bambino per il resto dei suoi giorni possa rimanere così com’è, è quello l’approccio più ragionevole. Gli donerà sicurezza, ci aiuterà a rispettarlo, a trovare la strada per una comunicazione adeguata, a parlare con lui di tutto. Nello sforzo di tradurre nella sua lingua i nostri pensieri scopriremo la bellezza di un lavoro, quello di maestro nella scuola primaria, che non ha eguali perché è insieme viaggio, esplorazione, scoperta e conquista. La conquista più bella è arrivare a sapere che il bambino ha capito. Si fida. Hai saputo accoglierlo nel tuo mondo di adulto e sei riuscito a spiegargli come funziona da noi.

Ogni aspetto della scuola che, per un verso o per l’altro, spiega al bambino che la sua condizione è transitoria, cercando di proiettare sullo schermo della sua immaginazione la visione di quel che sarà, nega per sempre la magia del presente e si rende complice del furto di quella magia. Anche piccoli particolari possono contribuire. Perfino l’aula e la disposizione dei banchi possono essere un insulto al bambino. Lo sono ogni volta che sottolineano e cercano di anticipare la sua crescita. Vedere i banchi ordinatamente in fila come se fossero quelli di un liceo mi mette tristezza. Immaginarsi l’Invalsi. Il test a risposta multipla non c’entra nulla con la didattica nella scuola primaria. È piuttosto un esercizio da adulti in cerca di conferme. Il bambino deve imparare giocando, quasi senza saperlo. Deve imparare relazionandosi a un gruppo, il suo gruppo, primo esempio di collettività, di cittadinanza tra i tanti che in futuro gli capiterà di abitare. Non vale neanche l’assunto che in futuro il bambino, ormai cresciuto, incontrerà nella vita (per ottenere la patente, per entrare in una facoltà universitaria a numero chiuso) il fantomatico test. A voler essere precisi, tra le tante gioie che lo attendono, dovrà superare anche prove ben più dure di un quiz d’ingresso. Perché tanta fretta? Ci arriverà. Se avrà avuto un’infanzia ci arriverà strutturato.

Albino Bernardini, Mario Lodi, Alexander Neill, don Milani, Luis José María Amigó y Ferrer, Neil Postman. Sono loro le stelle polari a cui tende il mio navigare di maestro. Rimando ai loro testi per una esposizione maggiormente esaustiva di quanto esposto in queste poche righe.

È facile supporre, perché è questo l’orientamento, che, sulla falsariga del modello americano No Child Left Behind, l’Invalsi tenda a divenire presto un sistema di valutazione della classe insegnati. Personalmente ho sempre creduto nella necessità di trovare un sistema che valuti gli insegnanti, premiando i migliori e stimolando tutti gli altri a far meglio. Quello che serve è un sistema articolato, capace di considerare il lavoro dell’insegnante nella sua policromia e finisca per giudicare il lavoro di un maestro non solo come trasmettitore di conoscenza, ma anche come educatore di una prima piccola comunità, come stimolo alla curiosità e formatore a tutto tondo. L’Invalsi per favore no. Sarebbe una pericolosa scorciatoia. Le conseguenze sarebbero disastrose. L’insegnante che dovesse essere giudicato sul risultato dei test dei suoi alunni passerebbe mesi a fare quiz e dimenticherebbe tutto il resto. In realtà smetterebbe di fare l’insegnante.

A scuola ci è sempre stato detto di non copiare. I test Invalsi però sono copiati. In pratica significa che uno studente non può copiare dal compagno, un aspirante docente non può copiare da un testo durante un concorso, però il Ministero della Pubblica Istruzione sì. Lui può copiare. E copia dagli americani. Sono infatti gli americani che hanno inventato il sistema di valutazione con test a risposta multipla. Il guaio è che ora non ci credono più. Un folto gruppo di intellettuali e professori statunitensi in questi anni ha messo in crisi il vecchio sistema, ha preso il timone e ha invertito la rotta. L’appello di Chris Hedges riassume il concetto.

Una nazione che distrugge il proprio sistema educativo, degrada la sua informazione pubblica, smantella le proprie librerie pubbliche e destina le proprie onde radio a un intrattenimento stupido e dozzinale, diventa cieca, sorda e muta. Stima i punteggi nei test più del pensiero critico e dell’istruzione, celebra l’addestramento meccanico al lavoro e la singola, amorale abilità nel far soldi. Sforna prodotti umani rachitici, privi della capacità e del vocabolario per contrastare gli assiomi e le strutture dello stato-azienda, e li incanala in una casta di gestori di droni e di sistemi. Trasforma uno Stato democratico in un sistema feudale di padroni e servi delle imprese.

Gli insegnanti, con i loro sindacati sotto attacco, stanno diventando sostituibili tanto quanto i dipendenti a paga minima di Burger King. Disprezziamo gli insegnanti veri – quelli con la capacità di suscitare nei bambini la capacità di pensare, quelli che aiutano i giovani a scoprire i propri doni e potenziali – e li sostituiamo con istruttori che insegnano in funzione di test stupidi e standardizzati. Il punto è che questi istruttori obbediscono, e insegnano ai bambini a obbedire. Il programma “No Child Left Behind”, sul modello del “Miracolo Texano”, è una truffa: non ha funzionato meglio del nostro sistema finanziario deregolamentato. Ma quando si esclude il dibattito, queste idee morte si autoperpetuano.

Il superamento di test a scelta multipla celebra e premia una forma peculiare di intelligenza analitica, apprezzato dai gestori e dalle imprese del settore finanziario che non vogliono che dipendenti pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti: vogliono che essi servano il sistema. Questi test creano uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con la propria testa – sono estirpati.

Una volta eravamo noi, i nostri metodi e la nostra didattica a essere presi d’esempio. C’era un motivo. Noi non sappiamo copiare. Perché poi arriviamo con vent’anni di ritardo. E finiamo per copiare la pagina sbagliata.

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