“L’ultimo uomo della Terra” (“The Last Man on Earth”, 1964)

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altPrima trasposizione cinematografica del romanzo di Richard Matheson I Am Legend (1954), pubblicato per la prima volta in Italia nel ’57 (Longanesi, I vampiri), L’ultimo uomo della Terra, trascurato alla sua uscita, col tempo è divenuto un vero e proprio cult, pur nell’ impianto complessivo da classico b-movie. Suo indubbio merito, anticipare tematiche che saranno proprie di altri sci-fi horror degli anni seguenti (uno su tutti La notte dei morti viventi, Night of the Living Dead, ‘68, diretto da George A. Romero, ispirato proprio al suddetto romanzo), oltre che restituire visivamente il senso d’angoscia opprimente presente nella pagina scritta, il capovolgimento del concetto di diversità nel rapporto umanità-mostruosità, e l’incapacità dell’essere umano di saper individuare ed accogliere un senso di fraterna speranza nei momenti più tragici, autocondannandosi all’estinzione.

 

La co-produzione Italia/Usa comporta l’esistenza di due versioni del film, quella italiana firmata da Ubaldo Ragona (autore dello script insieme a Furio M. Monetti) e l’altra americana, attribuita a Sidney Salkow, per la sceneggiatura di Logan Swanson (Matheson sotto pseudonimo), e di William F. Leicester. Siamo di fronte ad un lavoro pregevole, grazie ad un’atmosfera garantita dalla suggestione straniante di molte inquadrature, ulteriormente avvalorata da una bella fotografia in bianco e nero (Franco Delli Colli), tanto da far divenire la città di Roma (riconoscibile, tra l’altro, il quartiere Eur) una sorta di scenario universale sul quale si stempera la tragedia di un’ipotizzata catastrofe mondiale. L’accuratezza di tale impianto, unita alla dolente e partecipe interpretazione di Vincent Price, ne rendono ancora oggi piacevolmente inquietante la visione, sorvolando su qualche incongruenza e digressione a livello di sceneggiatura, in particolare il flashback relativo ai ricordi del protagonista.

 

Si leva il sole sulla città, tutto è avvolto da un’aura spettrale, il vento soffia fra le vie, dove, tra auto ormai ferme ed edifici vuoti, giacciono corpi di uomini abbandonati. E’intuibile l’avvento di qualcosa che ha interrotto il consueto fluire della vita, le folate si fanno strada verso l’abitazione di Robert Morgan (Price), suona la sveglia, “ancora un altro giorno, è ora d’alzarsi”. I pensieri dell’uomo ne accompagnano i gesti ripetitivi, il solito segno su di un improvvisato calendario, sono passati tre anni da quel dicembre del ’65, quando un virus debellò l’intera umanità, portandosi via prima la sua bambina e poi l’adorata moglie. Lui, valente dottore, ora non può fare altro che dare di giorno la caccia agli esseri rimasti, tramutatisi in vampiri, i quali di notte cercano d’ucciderlo. Vana è la ricerca di altri sopravvissuti “normali”, attraverso la ricetrasmittente, forse vi è ancora una speranza, l’incontro casuale con una donna, Ruth (Franca Bettoja), la quale, pur essendo infetta, sembra riuscire a convivere col morbo, ma non è la sola…

 

Oltre l’incipit su descritto, due scene mi hanno particolarmente colpito: la prima incursione dei “non morti” al ritmo di musica jazz, proveniente da un disco che Morgan sta ascoltando, la quale irrompe improvvisa, funzionale a sottolineare l’incedere alienante della mente dell’uomo, e poi l’ossessione compulsiva del ricordo, materializzatasi dopo la visione di alcuni filmini familiari e presto visualizzata nel flashback di cui sopra. Pur presente una certa inquietudine (il cadavere della figlia gettato tra le fiamme), la tensione però si allenta, dopo essersi insinuata pressante grazie alle doti di Price nell’evidenziare l’ostinazione di un uomo nel proseguire la propria vita, inventandosi un “lavoro” quotidiano come ragione d’esistenza, dimenticando però, nella sua qualità di dottore, che, prima ancora di preservare se stesso, dovrebbe almeno tentare di salvare i suoi simili e non ucciderli “in quanto mostri”.

 

La vicenda si ravviva, con qualche lungaggine, una volta giunti ad un finale raggelante nel suo pessimismo senza speranza, dal simbolismo cristologico: dopo che Morgan ha offerto il proprio sangue a Ruth, come idoneo antivirus, morirà trafitto da una lancia, sull’altare di una chiesa, ucciso dai rappresentanti di quella che dovrà essere la nuova umanità, pronta a ripetere gli stessi errori della precedente, per cui l’unica vera redenzione, misero barlume d’eguaglianza, sarà condividere identica fine, tutti salvi in quanto tutti destinati a morire. Due i remake: Occhi bianchi sul pianeta terra (The Omega Man, 1975, Boris Sagal) e Io sono leggenda (I Am Legend, 2007, Francis Lawrence), nel complesso validi entrambi, ma lontani dal riuscire a visualizzare il concreto e lucido senso di un’ apocalisse dove l’uomo esterna sino all’estremo la possibilità “di vivere anche senza una ragione” o “di arredare un cimitero per poi chiamarlo casa”, riprendendo come valida chiusura alcune frasi del film.

 

 Già pubblicato, in data 01/02/2013, sul blog “Sunset Boulevard”  http://suonalancorasam.wordpress.com/

 

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