“L’estraneo”, romanzo d’esordio di Tommaso Giagni

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Vorrei parlarvi de “L’estraneo”, edito quest’anno per Einaudi, romanzo d’esordio di Tommaso Giagni, giovanissimo scrittore nato a Roma nell’85. Il protagonista de “L’estraneo” è un ragazzo cresciuto nella Roma borghese, che lui chiama “delle Rovine”, figlio di un padre portinaio che viene dalla periferia estrema.
La famiglia del protagonista non è mai riuscita ad ambientarsi all’interno di un mondo a cui non apparteneva se non geograficamente: “mamma non ha fatto in tempo ad ambientarsi e tantomeno a <<sentirsi signora>>, mio padre non s’è goduto più niente dopo il lutto, io e mia sorella dovevamo fare <<le conoscenze>> e invece io sono venuto introverso e lei è troppo sguaiata anche per fare la mantenuta” (cit.)
Il punto di partenza di questo romanzo è quindi il senso di straniamento, già inscritto all’interno del DNA del protagonista, che infatti decide, attraversando il Raccordo Anulare, che funge da collegamento funzionale ma anche narrativo tra due mondi a parte, di ritornare a vivere, da ragazzo, nella periferia trucida e per lui sconosciuta che però, paradossalmente, rappresenta un vago collegamento con il suo passato, se non altro a livello genetico.
Ovviamente l’impatto è forte e difficoltoso, perché la Roma delle borgate è rappresentata come un universo ancora più chiuso, forse, della Roma “bene”, che almeno ha lasciato al protagonista un seppur piccolo segno identitario che si esplica ad esempio nella sua sensibilità artistica, che nella “Roma di Quaresima” non ha alcuno spazio. La borgata è un inferno ancora più infimo, fatto di delinquenza, di rituali selvaggi, di ostentazione volgare del possesso materiale. È come se il protagonista subisse una seconda e più bruciante esclusione, anche nel mondo di suo padre che credeva lo avrebbe accolto.
L’apoteosi di questo secondo e più grave straniamento avviene quando, incitato dal coinquilino, strampalato gigolo di provincia, si trova a dovere dividere il letto con una vecchia che intende pagarlo per una prestazione sessuale che mai avverrà. La donna, una professoressa universitaria che vive in un appartamento pieno di quadri, è come l’anello di collegamento tra i due mondi. È a casa sua che il

protagonista non riesce a cadere nell’abiezione totale della compravendita dei corpi, che non riesce a non posare lo sguardo sui dipinti della professoressa, inesorabilmente reso raffinato dalla permanenza nella Roma “bene”. È qui che fallisce la sua carriera di “ragazzo di vita” pasoliniano e che il protagonista si ricorda, suo malgrado, di essere uno sradicato, cioè un individuo che non è né l’una né l’altra cosa ed è condannato a vivere a metà, in un perpetuo esilio, la cui ipostatizzazione è forse proprio quel Raccordo Anulare in cui ritorna, disperato, nell’ultima pagina del romanzo.
Quello che colpisce maggiormente in questo libro, oltre all’esatta rappresentazione di questo senso di non appartenenza, che è uno stato di essere simbolico e allo stesso tempo emblematico della nostra epoca, è l’uso sapiente del mezzo linguistico. In una prosa scorrevole, a metà tra flusso di coscienza e, forse, scrittura onirica à la Sanguineti, Giagni realizza un resoconto in prima persona che fa immergere sin da subito il lettore, anche grazie ai numerosi agganci al linguaggio parlato e a correlativi oggettivi insoliti e contemporanei. Il punto di forza di un romanzo come questo è proprio quello di rompere, finalmente, con una certa narrativa dallo stile ellittico, e di collegarsi perfettamente con una tradizione italiana che fa espliciti riferimenti al Pasolini di “Petrolio” ma anche, direi, ad “Altri Libertini” di Tondelli.

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