Intervista con Claudio Sottocornola

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csagVarietà (Marna, 2016) l’ultimo libro di Claudio Sottocornolal (foto) rappresenta una corposa antologia di interviste ai divi storici della pop music italiana, da Mia Martini ad Anna Oxa, da Ivano Fossati a Paolo Conte, da Rita Pavone a Gianni Morandi, da Marco Masini a Gianna Nannini, da Bruno Lauzi a Ornella Vanoni, con spazio anche ad attori teatrali o cinematografici ed esponenti del mondo dello spettacolo in genere. La lettura dei vari ritratti, come lo stesso autore definisce le interviste, che comprendono un periodo che va dal 1989 al 1994, si rivela entusiasmante, in primo luogo perché Sottocornola si pone di fronte agli intervistati con un atteggiamento tanto professionale quanto colloquiale, volto nel contempo a far sì che dell’artista venga fuori la sua essenza più vera, intima, genuina, ed in seconda analisi perché ci aiuta a comprendere quei mutamenti sociali avvenuti fra gli anni ’80 e ’90 e di cui il mondo dello spettacolo rappresentava una sorta di cassa di risonanza. Un periodo in cui il culto dell’immagine e del quarto d’ora di celebrità concesso praticamente a chiunque, profetizzato da Andy Warhol, iniziavano a prendere piede, in una forma inizialmente più ruspante e genuina rispetto all’odierna entrata in scena dei vari “morti di fama” (Aldo Grasso), che sgomitando fra talent vari e il web riescono a trovare la loro effimera consacrazione “pronto uso”. Dei tanti artisti intervistati risalta dunque, grazie alle domande poste da Sottocornola, la loro veridicità, la consapevolezza di voler vivere così come si è, al di là di ciò che si è stati o di quel che si vorrebbe essere. Ma le curiosità che mi ha suscitato la lettura di Varietà sono state tante e quindi ho contattato Sottocornola così da parlarne direttamente con lui.

Claudio, una volta conclusa la lettura del tuo ultimo libro, Varietà, la prima sensazione avvertita è che probabilmente tu abbia voluto conferire una maggiore compiutezza al tuo lavoro interpretativo riguardo il mondo della musica e dello spettacolo in genere, sostenuto nel corso degli anni da acute analisi storiche e sociologiche. In particolare, leggendo le interviste ai vari artisti, fra i quali alcuni miti della tua infanzia (Rita Pavone, per esempio), si nota già il desiderio di andare oltre la superficie, così da offrire un ritratto, anche empatico, volto a far dismettere lo status di celebrità e restituirci l’artista nella sua essenza vitale.

E’ vero. Avendo lavorato molto negli ultimi anni sul rapporto fra musica, storia e filosofia, anche attraverso le mie lezioni concerto, sentivo il bisogno di ricomporre il puzzle della mia esperienza in tale contesto, che è nata, tra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90, come esperienza giornalistica. Ricordo che mi occupavo allora per una rivista bergamasca di territorio e volontariato, quando appresi che proprio Rita Pavone, il mito della mia infanzia e non solo, si apprestava a tenere un concerto al teatro Carcano di Milano. Decisi allora di realizzare un’intervista alla cantante – qui in apertura di silloge – che mi entusiasmò a tal punto da diventare la prima di una lunga serie ai divi del popular italiano, da Gianni Morandi a Ornella Vanoni, da Enrico Ruggeri a Milva, da Anna Oxa ai Pooh, da Orietta Berti a Enzo Jannacci, da Paolo Conte ad Angelo Branduardi, intrecciando personalità diversissime, che includevano non solo interpreti e musicisti, ma anche attori, conduttori, show-girl, danzatrici, scrittori e artisti visivi… Ricordo per esempio ancora con piacere gli incontri con Alberto Lattuada, Moira Orfei, Carla Fracci, le Gemelle Kessler, Nino Manfredi, Vittorio Sgarbi, Luca Barbareschi, Mara Venier, Guido Harari … In realtà il meglio di questi artisti coincide con il meglio della loro vita, per cui credo sia difficile scindere il divo dall’uomo, essendo il divo l’amplificazione di un carattere direi quasi drammatico, il cui fondo è per forza esistenziale. Non a caso la pop filosofia analizza cantanti, attori e personaggi televisivi vedendo in essi, come sottolinea il filosofo Maurizio Ferraris, una capacità amplificata di sentire l’umore del tempo e di precorrerne gli sviluppi, incarnando una figura, una modalità esistenziale, proprio come la maschera (o persona) indossata dall’attore tragico nel teatro greco serviva, oltre che ad amplificare la voce in assenza di microfono, a caratterizzare il tipo umano interpretato. Aggiungi che la intervista-ritratto è a sua volta un’espressione artistica, esattamente come uno scatto fotografico meditato, quindi il risultato è un’interpretazione che fa di chi scrive un interprete dell’interprete con cui interagisce. E infatti la mia preoccupazione nello stendere le interviste che compaiono in Varietà e, soprattutto attraverso un’agenzia romana, raggiungevano i più disparati quotidiani italiani, non era di restituire un messaggio, ma piuttosto, attraverso selezione e sintesi, una musicalità, quella dello strumento umano che avevo davanti, e che mi trasmetteva appunto una modalità universale dell’essere”.

“Molte volte quello che è accaduto prima ti spiega perché certe cose accadono oggi”. E’ una frase estratta dalla lettera scritta da Umberto Eco a suo nipote. Credo che Varietà nel riportare interviste anche a personaggi ormai non più fra noi (mi sovviene quella con Manfredi, piuttosto toccante), protagonisti negli anni ’60-’70 e ancora con molto da dire, artisticamente parlando, nel decennio successivo, possa svolgere una funzione di memoria storica. Magari aiutandoci a visualizzare un passato, neanche tanto lontano,  dove, sulle scene come nella vita, sembrava avvertibile una maggiore spontaneità espressiva, nonostante le remore dei benpensanti, paradossalmente, non so se sarai d’accordo, più geniale, intuitiva in certo qual senso rispetto ad oggi.

“La ragione per cui ho deciso di “salvare” le interviste contenute in Varietà, che avevano già avuto una ricca vita autonoma, è proprio quella che citi: contribuire a trasmettere una memoria storica che, in tempi smemorati e banali come i nostri, rischiava di andare perduta. Il fatto che nell’antologia compaiano nomi come quelli di Mia Martini e Nino Manfredi, Wanda Osiris e Bruno Lauzi, Mino D’Amato e Alberto Lattuada, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini – che non sono più fra noi – mi ha stimolato a raccogliere e custodire, cercando di passare questa eredità a quanti verranno. Sono poi convinto che, a differenza che in altri paesi, l’identità italiana si sia costruita proprio attorno a fattori culturali, come arti visive e problema della lingua, che hanno avuto nella cultura popular della seconda metà del Novecento il loro acme. Quando musica, televisione e cinema, fra gli anni ’50 e ’60, iniziarono a esercitare il loro potere di comunicazione e trasmissione di un immaginario nazionale collettivo, il vissuto degli italiani si nutriva di speranze, aspirazioni e valori condivisi, e questo  faceva dei divi del pop di allora quasi degli eroi epici amati da un’intera nazione, si trattasse di Celentano o di Mina, della Pavone o di Morandi, mentre poi coi nuovi divi il rapporto è andato raffreddandosi sino a diventare algido e distaccato, per esempio nei media della moda e della pubblicità, ma anche nella stessa canzone con talent usa e getta. Per questo tornare alle origini, al mythos fondativo, è un modo per recuperare energia. E Varietà è un viaggio sino al dissolversi del mito, e cioè sino alla fine del secolo”.

Riprendendo quanto scritto nella prima domanda, Varietà consente al lettore anche una riflessione sull’identità manifestata dai vari artisti. Personalmente mi si è insinuato un dubbio che vado ad esternare: quanto negli artisti intervistati vi è di reale e quanto è frutto di un’interpretazione, della creazione di un “personaggio”? Tendono cioè a mostrarsi all’interlocutore, al pubblico, per quello che sono, dando via libera al loro naturale carisma, o sfruttano quell’immagine divistica vissuta di riflesso in quanto fruiscono delle loro realizzazioni (ascoltatori, spettatori)? E ancora, è possibile al giorno d’oggi parlare di divismo?

“La psicologia moderna si è lasciata ispirare dalle provocazioni del filosofo Hume, che sostiene che l’io non sia altro che l’idea dell’io che ciascuno ha di sé. In realtà è un dato di esperienza che ciascuno si legge, e quindi si pone, interpretandosi, ed anche senza assumerecop-variet-sottocornola

integralmente la posizione scettica di Hume e magari mantenendosi entro una visione più sostanziale dell’io, resta il dato che il modo in cui sviluppiamo, decliniamo, affermiamo e comunichiamo noi stessi dipende dalla nostra libertà e creatività. Jung, discepolo e dissidente di Freud, sosteneva che il nostro inconscio fosse un pullulare di maschere o ruoli di cui ogni mattina decidevamo quale indossare, e Pirandello ce ne ha dato qualche saggio. Insomma, voglio dire che alla fine noi siamo in gran parte l’interpretazione che diamo di noi stessi (anche in senso etico, penso, per esempio, alla De hominis dignitae dell’umanista Pico della Mirandola) e, se questo vale per tutti, a maggior ragione vale per l’artista (musicista, poeta o attore poco importa) che fa dell’interpretazione il topos della propria vita. E’ però vero che, in un’intervista, si può scorgere una libertà interpretativa, anticonformismo e creatività, anche rispetto al proprio ruolo, o, al contrario, l’appoggiarsi al cliché condiviso, allo stereotipo che si vuole rappresentare e a cui ci si adegua, anche per comodità intellettuale. E’ la polarità fra libertà e necessità: tutti noi siamo in perenne tensione fra la massima espressione creativa del nostro potenziale e la stanchezza o pesantezza della routine e del luogo comune. Anche il divo non sfugge a questa ambivalenza, tanto più che in un’intervista tende a voler fare sintesi di sé, anche per ragioni espressive e comunicative, e questo comporta comunque una mediazione fra il dato condiviso e noto (il tipo o carattere pubblico) e quello sconosciuto, intimo e imprevedibile. Negli artisti incontrati ho però sempre rintracciato un plus di energia, creatività e spontaneità che mi ha poi incoraggiato, verso la metà degli anni ’90, a passare io stesso dall’altra parte del vetro per studiare e reinterpretare i classici della canzone pop, rock e d’autore, e mi ha portato ad assumere, sia nella scrittura che nella mia attività di docente di Filosofia, un atteggiamento espressivo ed ermeneutico, perché solo assumendo la categoria di interpretazione come fondamentale per i nostri tempi – divergenti e multiculturali – possiamo tentare una sintesi della contraddizione e un pensiero inclusivo. Il divismo, inteso come riferimento a modelli archetipici e normativi, che alimentano stili e modalità antropologiche, non morirà mai, perché l’uomo, nella condizione storica e imperfetta in cui si trova, ha bisogno di eroi e di modelli che lo incoraggino e lo ispirino nel cammino della vita, e questo comporta il senso di una responsabilità universale, perché ciascuno di noi è stato o sarà, in qualche modo, riferimento per altri in un tratto del percorso esistenziale. Ecco perché la vita risulta alla fine l’interpretazione più impegnativa e significativa che ciascuno di noi può esprimere”.

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