A proposito di… scrittura

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Alzi la mano chi non ha ceduto almeno una volta alla tentazione di mettere nero su bianco un pensiero, una poesia, un sentimento, un’emozione, il racconto di un viaggio, l’abbozzo di una biografia, l’incipit di un romanzo. A me capita di continuo. Ho sempre a portata di mano una penna, una matita, uno stecchino intinto nel caffè, un kajal, un rossetto ma accade sovente che mi manchi il foglio. Allora, se sono per strada, frugo nelle tasche o nella borsa alla ricerca di qualunque cosa su cui poter appuntare e lo faccio con una frenesia da “paura che sfugga il parto creativo” (potrebbe essere quello giusto per aprirmi la strada al Bancarella, al Viareggio, allo Strega, al Campiello). Mi basta di tutto: un biglietto del bus, del metrò, uno scontrino fiscale, un kleenex, la busta di una qualunque bolletta che ho appena pagato alla posta, la ricevuta per ritirare il piumone in lavanderia, i margini bianchi della Settimana enigmistica che il giornalaio mi ha tenuto da parte. Ultima ratio: il palmo della mano (tranne in estate perché il sudore può giocare brutti scherzi).

 

Se mi accade quando sono in casa, non è che le cose vadano molto diversamente. La scintilla dell’ispirazione s’innesca sempre troppo lontano dal tiretto della scrivania dove sono riposti i fogli A4 per la stampante. Una volta ho scritto due versi di endecasillabo sull’angolo di una tovaglia bianca appena stesa sulla tavola in cucina, che stavo apparecchiando per il pranzo. Mai più! Me ne sono dimenticata e quando il quotidiano rito del desinare s’è concluso, causa macchie varie (sugo della pastasciutta, Cirò autoprodotto, caffè e ammazzacaffè) dopo aver riempito la lavastoviglie, ho caricato anche la lavatrice. Quando mi sono resa conto di quello che avevo fatto, era troppo tardi: sono rimasta a guardare la centrifuga portare via i miei versi, piangendo a calde lacrime.

 

Se l’ispirazione arriva di notte, nel buio pesto della camera da letto, senza accendere la luce per non svegliare mio marito, mi alzo in modalità slow-motion per evitare che il talamo nuziale cigoli e, in punta di piedi, brancico fino alla porta del bagno (che è di fronte a quella della camera). Non oso chiuderla perché nel silenzio le cerniere producono suoni sinistri e quindi non posso accendere la luce (sempre per evitare di svegliare il sopra citato) e devo arrangiarmi con il barlume che filtra dalla finestra, grazie al lampioncino che la signora dirimpetto tiene acceso sul balcone. Nella semioscurità raggiungo, senza intoppi, il termosifone che, estate e inverno, fa da appoggio ad una pila di giornali e riviste per tutti i gusti.

 

Ne scelgo una che abbia il margine integro, afferro la penna che tengo sul lavandino in un bicchiere insieme agli spazzolini, e scrivo. La cosa è tutt’altro che semplice, lo faccio praticamente alla cieca, fidandomi della mano, visto che non posso controllare con la vista. La “presa visione” è rimandata al mattino, seguita da uno strappo attento della strisciolina di margine, che finirà a tenere compagnia a tutte le altre testimonianze della mia naturale inclinazione letteraria, disordinatamente conservate in ogni angolo della casa. Insomma, a farla breve, ho i cassetti pieni di multiforme, multi specie materiale cartaceo, con scritte difficilissime da decifrare. Però, appena ci riesco… ragazzi, che soddisfazione! Incredula mi commuovo di fronte al mio talento: possibile che sia stata capace di scrivere una frase così poetica, così intensa, così pregna di senso filosofico. Mi stupisco scoprendo gli inimmaginabili sviluppi narrativi contenuti in nuce in un periodo in perfetto stile minimalista, buttato giù dietro la nota della spesa, mentre ero ferma ad un semaforo nell’ora di punta di un piovoso pomeriggio autunnale. Mi stup… scusate… oddio… scusate scusate scusate… oddio eccolo… vi devo lasciare… vi devo lasciare… vi devo lasciare… altrimenti… mi scappa.

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